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sábado, 3 de octubre de 2015
jueves, 1 de octubre de 2015
Il mestiere di sopravvivere
Antonella di Nobile
Spesso, quando ci si ritrova a curiosare fra le centinaia di libri esposti sugli scaffali delle librerie, si è guidati, nella scelta, dal titolo. Che sia accattivante, seducente o puramente indicativo, il titolo svolge, come suggerisce Genette, varie funzioni, tra cui quella di partecipare alla circolazione di un’opera e di influire sulla percezione stessa che ne può avere il lettore. Il mestiere di sopravvivere è esattamente uno di quei titoli in grado di produrre nel lettore/acquirente delle impressioni immediate ed è, anche, uno degli elementi della scrittura a cui l’autore del libro, Marcelo Damiani, dà grande importanza. Ecco perché, a mio parere, una recensione a questo volume, il primo tradotto in lingua italiana dello scrittore argentino, non può esulare da una serie di considerazioni sul titolo.
Questo, innanzitutto, rimanda prontamente a Il mestiere di vivere di Pavese, cui il romanzo è accomunato, oltre che da una forma pseudo-diaristica, da una sorta di male di vivere che percorre costantemente la narrazione. Sopravvivere, al di là dell’accezione negativa di “mantenersi in vita con difficoltà”, definizione che ci rimanda al disagio esistenziale, può essere inteso come “continuare a vivere idealmente anche dopo la propria morte”.
Come afferma Damiani in un’intervista: “in realtà si pensa – come sostiene Freud – che si vivrà per sempre, e probabilmente si scrive pensando che la letteratura sia una forma di sobre-vida”, un modo per sopravvivere. Dunque, il titolo ci svela gli argomenti più pregnanti del testo: la vita, la morte, la letteratura. L’autore affronta tematiche molto profonde e, nonostante il malessere di fondo, riesce a smorzare i toni negativi mediante una pungente carica ironica. Da buon eccentrico quale è, smonta e rimonta i generi letterari, sovverte i canoni e demolisce le norme; crea quindi una narrazione singolare e complessa, all’insegna della sperimentazione, riuscendo, tuttavia, a mantenere viva e costante l’attenzione del lettore. Il romanzo presenta una struttura molto particolare: una serie di racconti compiuti e a sé stanti funzionano qui come segmenti interconnessi che, rientrando nel quadro generale dell’opera, ne infittiscono e intricano la trama. "I romanzi – sostiene l’autore – perdono d’intensità in funzione dell’estensione [...]; uno scrive parti che funzionano come capitoli, che sono racconti, e poi le relaziona con le altre”.
In questo universo di relazioni l’autore riversa le proprie passioni: in primis, il gioco degli scacchi, che condensa in una sottile metafora le riflessioni sulla vita, sulla realtà e, se vogliamo, sul suo doppio, la finzione, la letteratura; in secondo luogo, il cinema la cui influenza, sebbene si palesi con evidenza in un interessante commento a Brazil di Terry Gilliam, si manifesta nell’opera anche attraverso reminiscenze lynchiane e coeniane, e soprattutto mediante una tipologia di racconto che richiama fortemente Rashōmon di Akira Kurosawa. Nel romanzo ricorre la narrazione di medesimi eventi esposti da diversi personaggi e quindi da punti di vista differenti. Procedimento che, se da un lato dona maggiore complessità psicologica ai personaggi, dotandoli di sfaccettature caratteriali, dall’altro genera volute contraddizioni e una confusione nella visione d’insieme che spetta al lettore dissipare. L’autore si sbizzarrisce in una singolare forma di scrittura in cui il lettore è invitato, o quasi costretto, a partecipare attivamente, districando i fili della narrazione.
Il romanzo di Marcelo Damiani si configura, a fine lettura, come un originale e ben architettato gioco letterario fra autore e lettore.
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