Claudio Bagnasco e Giovanna Piazza
Il mestiere di soppravivere di Marcelo Damiani, apparso nel 2014 per le Edizioni Arcoiris a cura di Marcella Solinas, è un avvincente romanzo che unisce atmosfere da giallo alla riflessione filosofica – non priva di umorismo –, in una costruzione originale e intrigante.
I sette capitoli sono disseminati di elementi che il lettore raccoglie per cercare di ricomporre i legami tra i personaggi, accomunati dal fatto di vivere su di una medesima isola senza nome: si leggerà dello scrittore David Marey e di sua moglie Veronica, traduttrice; di Claudia, l’amante di David; dell’editore Oscar e di Reynaldo Gómez, critico letterario. Si ascolteranno le acute osservazioni sul rapporto tra felicità e morte del professore universitario León Tolver, ingaggiato dalla sorella per compiere assurde e misteriose missioni. E altre figure soltanto nominate saranno subito pronte a ricomparire all’improvviso, andando a delineare così intrecci imprevisti e nuove possibilità.
Nel corso delle pagine, la voce narrante si moltiplica: a volte sono gli stessi personaggi a prendere la parola e a raccontare di sé, in alcuni capitoli invece la terza persona racconta della vita di questi uomini e donne che vivono come sospesi e interrotti, senza memoria o in viaggio o incerti sul proprio futuro o insoddisfatti o, ancora, desiderosi di togliersi la vita.
Nessuno di essi coincide con le proprie azioni, con i fatti che lo riguardano.
Secondo un procedimento tipico dell’arte cubista, capita che una stessa vicenda venga guardata da più punti di osservazione, i quali, posti l’uno accanto all’altro, producono un effetto surreale pronto a mettere in crisi ogni pretesa di racconto realistico.
La narrazione, che non pare cercare mai un inizio né una conclusione, procede per variazione e somiglianza (si pensi solo alla presenza di un cane di nome Eros e di una cagnetta chiamataAfrodita o al particolare dei capelli rossi che ritorna per individuare due diverse donne, Michelle e Claudia). Si assiste a un continuo avvicinamento e allontanamento giocoso delle figure e delle parti, che impedisce di stabilire cos’è falso e cosa è vero, cosa è originale e cosa è ripetizione, cosa viene prima e cosa succede dopo.
Nemmeno la scrittura, che ricopre un ruolo fondamentale in queste pagine, è al riparo dall’inafferrabilità e dalla moltiplicazione. L’opera dal titolo “Vivere è un plagio”, il romanzo che David non ricorda di aver scritto e che dà anche il nome a uno dei capitoli de Il mestiere di sopravvivere, è uno dei misteri a cui viene dato più spazio nel libro di Damiani (che compare come autore di una variante degli scacchi, la “variante Damiani”, p. 20).
Essa costituisce l’occasione per svelare le intenzioni nascoste e per mettere a nudo con piglio grottesco le meschinerie e l’umanità dei protagonisti, per mostrarci personaggi ambigui, tradimenti, situazioni equivoche, fraintendimenti.
La festa, situazione che ricorre o viene citata spesso nei capitoli, è l’esempio di un luogo di sospensione della realtà e dimensione della possibilità più imprevedibili. Durante una festa in abiti medievali Tolver viene gravemente ferito in un duello; l’io narrante del capitolo Paradiso perduto ha intenzione di suicidarsi “dopo i festeggiamenti” con gli amici (p. 33); David Marey si risveglia all’indomani di un festino in cui tutti si congratulano per il suo nuovo libro e che lui descrive in questi termini: “Quando si partecipa per la prima volta a riunioni di questo tipo si ha la sensazione di essere in cielo. Di solito sono pieni di personaggi belli e maledetti, quasi tutti ti salutano, molti ti sorridono invitanti, e c’è persino qualcuno che vuole conoscerti. Poi quando l’alcol comincia a fare effetto viene fuori il veleno. All’inizio a piccole dosi, timidamente, simile a un sussurro all’orecchio; ma a poco a poco il tono delle conversazioni si infervora, fino a che il trascorrere della notte non ti mostra l’unica verità certa: è tutto una bugia, durante le feste niente è reale.” P. 55.
Ma il centro, cioè il motivo e lo scopo dei movimenti degli uomini e delle donne, pare rimanere sempre oscuro, ignoto, inspiegabile. Le passioni si affievoliscono, le convinzioni sono deboli, le volontà mutano. Davvero metteranno fine alla propria esistenza gli aspiranti suicidi che dichiarano al lettore le proprie intenzioni di morte? Dice Tolver: “[…] quasi tutti i suicidi […] rispettano un rigido codice del silenzio. Sanno che l’annuncio del suicidio tende a soppiantare il fatto in sé, annullandolo completamente.” P. 44.
In altri termini, il gioco e l’artificio generano legami e trame che non portano mai all’indentità, alla verità, ma innescano continue possibilità, che, sebbene si intreccino, sono destinate a rimare sostanzialmente divergenti.
Ciascuno è, in fondo, irrelato rispetto agli altri, ma dagli altri riceve molteplicità, rotondità, grazie ad essi viene espressa una parte del possibile di ognuno e la somiglianza di questo con il mondo.
Ricco di riferimenti alla letteratura (già il titolo rimanda a Il mestiere di vivere di Cesare Pavese) e al cinema (aspetti che Marcella Solinas mette in luce nella postfazione), il romanzo dello scrittore argentino Marcelo Damiani, in cui si sente l’inevitabile eco di Borges, non è solo un piacevole divertimento letterario: la sostanziale incompletezza e la sospensione delle figure porta ciascuna di esse ad affacciarsi sulle questioni ultime e qualcuno – León Tolver – tenca anche di dare a esse voce. All’uomo le possibilità paiono infinite e la vita eterna, anche se in realtà non è così, poiché in fondo tutte le costruzioni – anche la letteratura – cercano soltanto l’eternità, cioè la negazione dei limiti della vita umana (in questo romanzo c’è addirittura uno scrittore di prologhi morto che parla). Persino la vita è una costruzione (una finzione, una replica, Vivere è un plagio si leggeva) che si cerca di rendere credibile. Sopravvivere significa provare a stento a restare in vita ma anche essere dei superstiti o, addirittura, continuare a vivere dopo la propria fine terrena, cioè salvarsi: “Ma in realtà nessuno sa niente della morte. […] Il cambiamento continuo che l’avrebbe inevitabilmente condotto alla morte, l’unica certezza che abbiamo nella vita, non solo gli risultava insopportabile, ma lo rendeva diffidente verso tutte le teorie sofistiche secondo cui o la vita è il miglior antidoto contro la morte, oppure l’una e l’altra formano una sorta di continuumimprescindibile e autorigenerantesi, per non dire panteistico. Secondo Tolver la sola cosa, forse, in grado di opporsi alla morte era il mito della felicità, non nella sua stupida versione postmoderna, saturata dai progressi della tecnologia e da promesse di piaceri paradisiaci, ma nella versione espressa dalla classica eudaimonia greca, connessa a una fase precedente alla vita in armonia con gli dei, quando l’esperienza della morte ancora non era stata contaminata da presunti desideri di trascendenza.”, corsivi nel testo, pp. 44-46.